Donne incinte sul barcone Le ho viste abortire e morire
Titi la sopravvissuta racconta
PALERMO — «A bordo c’erano anche tre donne incinte. Due di loro prima di morire hanno perduto il bambino che portavano in grembo, hanno abortito per la fame, la sete e la sofferenza di un viaggio terrificante durato 21 giorni». Parla un inglese stentato Titi Tazrar, 27 anni, eritrea, unica donna sopravvissuta alla tragedia nel Canale di Sicilia. Ma lo strazio di quelle compagne di viaggio che coltivavano la speranza di una vita migliore soprattutto per le creature che portavano in grembo lo racconta anche a gesti. Alza a fatica la testa dal cuscino e muove le mani dall’alto in basso, sfiorandosi il ventre come a dar forma all’orrore di quei feti che vengono via dall’utero materno. Un gesto che fa calare il silenzio tra medici e infermieri dell’ospedale Cervello di Palermo dove ieri è arrivata in elicottero assieme a un altro connazionale di 24 anni, Halligam Tissfaraly, che se ne sta raggomitolato tenendosi il braccio teso alla flebo.Titi, la sopravvissuta
Anche Titi è visibilmente provata, ma sgrana gli occhi e quasi si dispera quando non riesce a farsi capire. «A bordo non avevamo praticamente nulla — racconta — solo qualche bottiglia d’acqua, pochissimo cibo e neanche un telefono per lanciare l’allarme. Alla partenza eravamo 78, in gran parte eritrei ma anche etiopi e nigeriani. Di alcuni ci accorgevamo che erano morti perché durante la notte cadevano direttamente in mare, altri li abbiamo dovuti abbandonare noi. Le donne incinte sono quelle che più hanno sofferto, noi non sapevamo come assisterle e consolarle. Ma poco dopo aver perso il bambino sono morte anche loro».
E poi dà la sua versione sulla controversa questione dei soccorsi maltesi. «Ci hanno dato cibo, acqua e della benzina ma ci hanno lasciati in mare. Anche un’altra imbarcazione si è accostata per darci cibo e acqua. Nessuno però ci ha preso a bordo». Si fa evasiva di fronte alla domanda diretta se sono stati loro a rifiutare il trasbordo sulle imbarcazioni che hanno fornito i viveri. Insiste: «Ci hanno dato solo acqua e cibo, mentre altre navi non si sono neppure avvicinate. Noi ci sbracciavamo, gridavamo, chiedevamo aiuto ma loro facevano finta di non vederci». Per Titi il trasferimento in ospedale si è reso necessario per le sue precarie condizioni di salute («si riprenderà presto» assicurano i medici).
Dietro la sua attuale fragilità si intravede un’abitudine alla sofferenza che è stata determinante per resistere 21 giorni in balia del mare. Forse quel che resta della vita militare a cui era destinata. In Eritrea frequentava quella che lei chiama «accademia militare » e che forse è proprio la durissima «Sawa» dove le donne subiscono ogni tipo di violenza. «Era una vita che non mi piaceva — si limita a dire lei — volevo e voglio una vita diversa ». Titi non è sposata e non ha figli. Nel suo Paese ha lasciato la madre, un fratello e una sorella che lavorano in un’azienda agricola e dice di non aver pagato nulla per il viaggio: «A pagare per me è stato mio zio materno, ma non so quanto abbia versato ». Sa benissimo invece quanto ha dovuto penare prima di arrivare al tanto atteso viaggio della speranza in Italia: «Un anno e otto mesi ho dovuto aspettare prima dell’imbarco— racconta — restando a lungo in Sudan e poi diversi mesi in Libia».
Non parla o preferisce tenerle per sé storie di violenze in Eritrea e durante il cammino verso l’Italia, ma illumina la stanza col suo gran sorriso quando si accenna al futuro: «Ho chiesto asilo politico — scandisce— sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia ma in Italia. Voglio restare qui. Sono disposta a fare qualunque tipo di lavoro ma voglio finalmente una vita migliore ».
Alfio Sciacca
24 agosto 2009